Padova, 12.03.2009

Giornata di studio in occasione dell’inaugurazione del Centro interuniversitario di Storia culturale

Simona Troilo

Università di Padova, Dipartimento di Storia

 

Storia culturale e soggettività: percorsi di genere

 

Nel 1994, in Becoming a woman Sally Alexander scrive: “La storia femminista cerca di identificare le interruzioni e i silenzi nella storia – non solo nella speranza di restituire un passato più pieno ma di scrivere una storia che cominci da un altro luogo. La soggettività potrebbe essere questo “altro luogo” non tanto e non solo nel senso che la soggettività è la sede della differenziazione sessuale, ma anche e soprattutto nel senso che essa collega il passato col futuro grazie alla memoria e all’immaginazione, e stabilisce un ponte tra realtà e fantasia, e che infine ha sempre una dimensione inconscia”1. In questa breve citazione sono richiamati alcuni dei concetti più significativi della riflessione storica e storiografica sulla soggettività. Una riflessione che, a partire dagli anni ’70, attraversò ambiti diversi e diversificati, snodandosi a livello politico, teorico e specificamente disciplinare e immettendo nelle scienze sociali una spinta innovatrice di grande rilevanza. Differenza, memoria, oblio, immaginazione, inconscio divennero infatti, da allora, nodi della critica al sapere tradizionale discusso, decostruito, problematizzato da soggetti diversi e diversamente situati. Alcuni di questi nodi saranno oggetto della mia relazione che ripercorrerà, soltanto a grandi linee, temi e fasi del dibattito sulla soggettività così come andò riflettendosi ed evolvendosi in Italia, dove si sviluppò per alcuni versi in maniera del tutto originale. A questo breve schizzo seguirà l’indicazione di alcuni percorsi di ricerca attuali su un tema –quello appunto della soggettività- di estrema rilevanza nell’ambito della storia culturale, all’interno della quale i “percorsi di genere” assumono oggi una specificità da contestualizzare e analizzare.

Ripercorrere, seppur schematicamente, alcuni aspetti della riflessione sulla soggettività in Italia negli ultimi decenni significa fare i conti con molte questioni, prima tra tutte quella relativa alla trasformazione dell’epistemologia della storia sollecitata parecchio tempo prima dell’incontro della soggettività con la storia delle donne, avvenuto negli anni Ottanta. È noto infatti come a partire dal decennio precedente molti interrogativi avevano attraversato il dibattito sulla pratica della storia, dibattito sviluppato sia sul versante dei “soggetti della scena storica” sia su quello delle modalità da impiegare nella loro analisi. È in questo decennio ‘60/’70 che viene a delinearsi la necessità di dare parola a soggetti, appunto, tradizionalmente privi di cittadinanza storiografica, marginalizzati in quanto “altri” rispetto ad un soggetto universale, maschio, eterosessuale, occidentale, bianco, di classe medio-alta. Lavoratori, neri, donne emergono allora dall’oscurità in cui erano stati confinati, rivelando una propria agency e contestando il carattere di alterità assegnato loro nei processi della storia e della sua indagine. Questa comparsa sulla scena produce il riconoscimento del valore della differenza, nei termini della pluralità di memorie, di storie e di culture da analizzare attraverso una pratica storiografica in grado di mettere in discussione anche le rilevanze e le gerarchie conoscitive accademiche. Lo studio di “nuovi” soggetti favoriva infatti l’affinamento degli strumenti della ricerca, l’arricchimento delle prospettive d’indagine, l’immissione di nuove angolature nella lettura e nell’interpretazione di processi antichi, recuperati ora nella loro complessità.

Questa messa in discussione dello statuto della storia interessò anche un altro aspetto del “fare storia”, quello della natura e del ruolo della storica/dello storico ritenuto osservatore non più neutro, ma posizionato in uno spazio e in un tempo definiti: soprattutto, portatore di istanze, memoria, appartenenze proprie, per questo uniche e peculiari. I termini natura e ruolo dell’osservatore confluiranno, in parte sciogliendosi, nella nozione di soggettività soprattutto grazie alla critica femminista che affiancò, sostenne e legittimò la storia delle donne, disciplina in nuce in questo periodo. È dall’incrocio di più spunti quindi che maturò il tema della soggettività relativa al soggetto ricercato e al soggetto ricercante nel campo del sapere. Un soggetto che, lo metterà bene a fuoco la teoria femminista, non può essere considerato avulso o esente da dinamiche di potere analiticamente ripercorribili.

Sollecitata dalle trasformazioni e dagli interrogativi posti in anni di intenso lavorio politico e intellettuale, la storia delle donne irruppe in ambito storiografico con il proprio carico specifico di soggettività. Questo carico le derivava innanzitutto dalla politica e, nell’Italia degli anni Settanta, dalla lettura che questa –a sinistra- forniva della soggettività. Il termine era allora ampiamente utilizzato per delineare soggetti accomunati da idee e pratiche riconducibili all’antagonismo. Bandita l’istanza individuale, svilita nell’ambito di una lotta anticapitalista collettiva, la soggettività assumeva in questo contesto sfumature di intenzionalità, alternatività, volontà, impegno a cambiare il mondo prima ancora che se stessi. Nei confronti di questo soggetto antagonista, il movimento femminista sperimentava già un duplice atteggiamento volto da un lato a confermare l’istanza rivoluzionaria collettiva, dall’altra ad approfondire lo spazio del sé come spazio privilegiato di trasformazione. Le ambiguità e le contraddizioni insite in questa duplicità arricchirono la prospettiva femminista come da lì a pochi anni verrà messo in luce dalla sua pratica e dalla sua teoria. In ogni caso, anche per la storia delle donne la soggettività fu, almeno all’inizio, concetto forte, sinonimo di antagonismo e volontà. Come ricorda Paola di Cori, la parola del resto “sembra(va) allora diventata agilissima”, “rimbalza(ndo) veloce dal comizio al saggio di filosofia e viceversa”2. In questi passaggi, il termine inizia a trovar spazio tra gli attrezzi del mestiere delle storiche che vi riconoscono il senso di “prassi” e protagonismo e vi affiancano quello di consapevolezza e autocoscienza. Il legame stretto annodato tra storia delle donne e soggettività viene quindi subito percepito come connaturato allo statuto della nuova disciplina, nata per restituire cittadinanza ad un soggetto a lungo ignorato dalla storiografia, un soggetto, come accennavo prima, ritenuto “altro” quindi irrilevante, non degno di attenzione né tanto meno di ricerca critica. Facendo propria l’esigenza di restituire parola a chi parola e memoria fino ad allora non aveva avuto, la storia delle donne esprimeva pienamente l’esigenza di individuare l’agency di antenate di cui ricostruire storia e genealogia. Nel far questo scardinava la dimensione di potere insita nelle gerarchie della conoscenza, mettendo in discussione la propria stessa metodologia e spalancando la porta –lo vedremo subito- a nuove forme d’indagine.

Gli anni Ottanta rappresentano in Italia il momento di maggior dibattito sulla soggettività, problematizzata dentro e fuori la riflessione femminista e in contesti, specie quello filosofico, in cui le studiose si confrontano direttamente con la crisi della soggettività maschile. Da questo confronto nascono esperienze, di tipo editoriale ma non solo –penso ai numerosi incontri svoltisi soprattutto fuori dall’accademia- che rivelano come l’intreccio tra politica e cultura sia costante, e come la discussione sia già aperta alle sollecitazioni provenienti della critica femminista statunitense ed europea (mi riferisco soprattutto al dialogo con Rosi Braidotti e Teresa de Lauretis, studiose italiane trasferitesi altrove e divenute in breve referenti imprescindibili per la teoria femminista generale). In questo momento, l’affermarsi di una soggettività femminile passa attraverso l’interrogarsi sulla differenziazione sessuale, sui corpi, sul linguaggio, in un continuo interscambio tra teorizzazione e pratica politica. La soggettività delle donne, scrive ancora Di Cori, viene analizzata duplicemente, “come irruzione nel discorso maschile in quanto soggetti altri” e “come costruzione autosoggettiva”3 in grado di distinguere ciò che è estraneo da sé e ciò che definisce se stesse. Questa duplicità consente di allargare lo spettro dei nodi affrontati, introducendo un concetto che solo più tardi verrà tematizzato: quello dell’intersoggettività come momento relazionale fondamentale per la definizione stessa del soggetto.

Accanto alla soggettività forte, inizia comunque in questi anni a far la sua comparsa una soggettività che rivela rotture interne, fragilità, debolezze: una soggettività messa in luce dalla psicoanalisi e della filosofia post-strutturalista che ne mettono in discussione l’unitarietà. Attraverso l’opera di decostruzione avviata da Derrida e Foucault, il soggetto diviene “invenzione della grammatica”, “prodotto della storia”, “costruzione contro l’inconscio”. Sono il linguaggio e le relazioni di potere a definirne in questo caso la natura, che è ritenuta inconcepibile al di là del corpo, delle differenze, della trasformazione perenne: un soggetto dunque in continua costruzione, di per sé incompleto e impossibile da definire. Ma come dialogono queste due forme della soggettività, e in che termini vengono recepiti dalla storiografia gli spunti provenienti da discipline concentrate specificamente sul tema del soggetto? La risposta in Italia passa attraverso un volume che tematizza il rapporto soggettività/storia delle donne e al contempo lancia una serie di interrogativi raccolti e dibattuti negli anni successivi: mi riferisco al volume Storia e soggettività di Luisa Passerini, pubblicato nel 1988 e incentrato sulla duplice questione dei soggetti della storia e della loro capacità decisionale. Mettendo a fuoco gli elementi discussi fino ad allora nell’ambito, come ho detto, di varie discipline e rapportandoli alla storiografia, l’autrice si interroga su quali soggetti la storiografia indaga o dovrebbe indagare: soggetti lacaniani o foucaltiani? Soggetti assoggettati, subalterni o dotati di agency e protagonismo? E ancora: soggetti individuali o collettivi? Uomini e donne o classi, nazioni, “etnie”? a queste domande il volume ne aggiunge altre relative alle modalità di racconto del soggetto, alle vie attraverso cui analizzarlo, agli strumenti per farlo. Passerini si sofferma soprattutto sul rapporto esistente tra oralità e scrittura, riconoscendo alla storia orale, da lei praticata, la capacità di far emergere le molteplici appartenenze del soggetto indagato, la sua natura plurima, la sua modalità di relazione con il mondo e, soprattutto, con l’intervistatore. In questo senso il libro apre il terreno anche ad un aspetto proprio della relazione intersoggettiva a cui prima accennavo, vale a dire al rapporto, o meglio, allo scambio tra ricercatore e oggetto della ricerca, scambio che determina un intreccio di soggettività rendendo ancora più complessa l’interpretazione del materiale indagato.

L’uscita del volume Soggettività e storia è da collocarsi in un momento in cui il dibattito sulla soggettività e sulla storia delle donne va arricchendosi di contributi fondamentali. E’ all’incirca degli stessi anni infatti la proposta lanciata da Joan Scott di una nuova categoria analitica, il gender, “utile” per la comprensione dell’ordinamento e dell’organizzazione delle relazioni sociali. Riprendendo gli spunti foucaultiani su potere e sessualità, le sollecitazioni lacaniane su identità sessuale e linguaggio, la logica del supplemento di Derrida, Joan Scott propone il superamento della rappresentazione binaria fondata sull’oggettivizzazione essenzialista maschile/femminile, in vista della promozione del genere a “elemento costitutivo delle relazioni sociali fondate su una cosciente differenza tra i sessi” e “a fattore primario del manifestarsi del rapporto di potere”4. Com’è noto, questa proposta immetterà nella storia delle donne questioni che negli anni successivi acquisiranno una netta rilevanza nell’indagine: i miti, i simboli, le formazioni discorsive, le forme di potere, i conflitti, le norme, le identità soggettive individuali costituiranno il campo in cui sperimentare un’analisi che per molti versi rinnoverà fin dalla base il modo di leggere e interpretare la storia. La ricezione/applicazione della nuova categoria, è noto anche questo, sarà diversa nei vari contesti di produzione storiografica: una maggiore aderenza ad essa si avrà infatti negli Stati Uniti, mentre in Francia e in Italia i timori legati al linguistic turn e la graduale perdita della carica innovativa insita nel concetto originario di gender finiranno spesso con il cristallizzare proposte interpretative riluttanti ad aprirsi a nuove prospettive. In questo senso è possibile intravedere una certa tendenza italiana a contrapporre il genere alla soggettività laddove il genere viene visto come strumento di una “epistemologia distruttiva”5, frutto estremo del decostruzionismo, mentre invece la soggettività è indicata come agency autonoma e razionale, radicata in processi storici definiti. All’interno di questo schematismo si collocano però letture e scambi più approfonditi, come quello intercorso a distanza tra Gianna Pomata e Paola di Cori negli anni Novanta, sull’applicazione della categoria scottiana. Il confronto in questo caso vede da un lato la preoccupazione verso un uso della categoria che, “riducendo” le donne unicamente alla dimensione discorsiva, finirebbe con il negarne la stessa esistenza storica, spalancando la porta ad atteggiamenti misogini e alla marginalizzazione del “fatto” in storia; dall’altro lo sconcerto per un uso semplicistico del concetto di discorso, che porterebbe ad insinuare una dicotomia “fatto” storico/formazione discorsiva incapace di restituire la complessità degli elementi e dei nessi in gioco. Di qui l’invito a tener conto della molteplicità degli aspetti connessi all’utilizzo della categoria del genere, ritenuta comunque centrale per una trasformazione ulteriore dell’epistemologia della storia. Ma di quale soggetto e di quale soggettività/intersoggettività parla il dibattito sulla storia delle donne a partire dagli anni novanta?

Sono soprattutto i gender studies, la gender history e la critica femminista statunitense ad apportare nuovi elementi di discussione relativi al soggetto e alla soggettività. In questi casi l’attenzione si concentra sui processi che determinano la trasformazione continua dei due termini, prospettando per essi nuove possibilità di impiego e utilizzo. Scrive Judit Butler nel 1992: “la critica del soggetto non consiste né nella negazione, né nel ripudio del soggetto stesso, quanto piuttosto nel modo di interrogarsi sulla sua costruzione come premessa data o fondativa”6. Le modalità di costruzione diventano dunque centrali in una critica attenta a cogliere i processi della soggettività e a specificarne alcuni aspetti: l’essere essa “nomade”, nelle parole di Rosi Braidotti, “eccentrica”, in quelle di Teresa De Lauretis, “elusiva” in quelle di Jane Flax, “cyborg” in quelle Donna Haraway. Tutte aggettivazioni che rimandano, sul piano storico, ad una soggettività che è sempre cambiamento e trasformazione e a un soggetto, scrive Passerini, che è “uno sviluppo anche se non necessariamente un’evoluzione lineare, (…) una narrazione, non obbligatoriamente di una sola storia”7. Se l’arricchimento del termine, dal punto di vista filosofico, passa attraverso i “processi del soggetto”, una sua ulteriore, connessa, problematizzazione avviene grazie all’intreccio della categoria analitica del genere con quella di classe, nazione, “razza”, etnia, un intreccio che indica come lo stesso concetto di donna sia problematico e potenzialmente ricco di sviluppi. Alcuni di questi vengono indicati con chiarezza dalla critica postcoloniale, nel momento in cui essa ad esempio denuncia il riferimento egemone all’essere donna occidentale, o dalla critica femminista afroamericana quando rivendica il rifiuto dell’idea di donna in quanto donna bianca. Su questi percorsi del genere si sono nel tempo costruiti, e continuano a costruirsi, percorsi di ricerca incentrati su “specifiche” soggettività, come quella del soggetto coloniale la cui identità non può o, nelle parole di Gayatri Chakravorty Spivak, non deve essere ridotta ad un’unitarietà che impedisca –ancora una volta- di riconoscerne le plurime appartenenze e le molteplici relazioni, negoziazioni e resistenze. Anche in questo caso emerge la richiesta di analizzare i processi identitari in maniera fluida, riconoscendo alla soggettività il dato di molteplicità, incompletezza, performatività che la caratterizza.

Proviene da questi studi, a mio avviso, l’originalità di alcune ricerche che negli ultimi anni in Italia attraversano la storia delle donne e di genere nel campo “culturalista”. Si tratta in questo caso di lavori messi a punto da studiose nate in prevalenza negli anni del femminismo, di fatto in dialogo politico con esso, ma spesso in conflitto con la generazione di studiose/femministe che le ha precedute, nei cui confronti risulta complessa la questione della trasmissione di pratiche, idee e valori che caratterizzarono la stagione degli anni ’70. Queste “distanza” probabilmente le avvicina con maggiore curiosità alle teorie del gender, prive dei timori ad esse legate e soprattutto prive di quella diffusa ritrosia nei confronti della soggettività che oggi nella storia delle donne sembra echeggiare, negativamente, politicità dunque scarsa scientificità. A sua volta la vicinanza con le teorie del gender le allontana, questa volta in maniera più marcata, dall’accademia da cui in genere sono già distanti o escluse. Altra caratteristica di queste ricercatrici è che il più delle volte non “nascono” come studiose delle donne o del genere, ma nelle donne e nel genere si “imbattono”, intrecciando temi e questioni in un’ottica prevalentemente multidisciplinare. Ora, quali percorsi è possibile rintracciare nella produzione, il più delle volte in corso, e purtroppo numericamente ancora esigua, di questi “soggetti ricercanti”?

Una delle linee più interessanti credo sia quella relativa alla nascita, alla genealogia, e allo sviluppo del movimento delle donne in Italia, letto in prospettiva transnazionale e postcoloniale. Le questioni in questo caso sono molte, tutte centrate su un concetto di soggettività che si confronta in vario modo con i nodi e i nessi qui rapidamente richiamati. Nel caso del sorgere dell’emancipazionismo, la ricerca (penso ad esempio a quella di Catia Papa8) si interroga sulla percezione di un altrove, l’Oriente, da parte di donne impegnate tra Otto e Novecento nell’elaborazione di una cultura politica propria e autonoma. Il tema dell’alterità viene qui ad intrecciarsi a quello di una soggettività femminile che per la prima volta rivendica il proprio stesso essere “altro” rispetto al soggetto universale maschile e bianco, trovandosi di necessità e nel contempo a confrontarsi con ulteriori alterità: quella di uomini e donne di paesi meta dell’imperialismo europeo. Si annodano in questo modo rappresentazioni e autorappresentazioni in cui i soggetti frantumano e ricompongono le proprie appartenenze, in un continuo scambio e in una continua relazione con altri soggetti, nei confronti dei quali misurare e sperimentare le proprie identità. Spostandoci nel tardo Novecento, nella stagione del neofemminismo, troviamo ricerche impegnate ad indagare le reti spaziali e geografiche dei movimenti delle donne, così come si svilupparono tra Italia, Europa e Stati Uniti. L’approccio transanzionale viene qui impiegato per mettere in luce quello che Liliana Ellena e Elena Petricola definiscono, in un numero di una rivista -Zapruder- da loro curato, “la dimensione ‘transculturale’ dei processi di identificazione e mobilitazione politica”9, per comprendere la quale è premessa obbligata la critica all’eredità coloniale. In questa direzione vanno le ricerche di Vincenza Perilli, sui nessi tra femminismo e razzismo rintracciabili nello spazio discorsivo italiano, francese e statunitense, dove le figure del nero e dell’ebreo vengono impiegate per elaborare metafore e analogie estremamente problematiche10. Su di un altro terreno, ma sempre centrata sul transnazionalismo dei movimenti, si muove invece la ricerca di Laura Corradi sui legami, gli scambi, gli intrecci tra femminismo europeo e femminismo post-coloniale, letti attraverso la chiave di un innesto tra internazionalismo di matrice socialista e pacifista e terzomondismo11.

Un altro ambito di studi che a me pare molto interessante in relazione all’approccio fin qui delineato è quello dedicato alle artiste, a donne che nel tempo hanno espresso la propria soggettività attraverso l’arte e le sue forme. L’analisi, come è stato di recente sottolineato da Laura Iamurri, prende in questo caso spunto dal recupero dell’attività e della ricerca di una delle protagoniste più radicali del femminismo italiano, la Carla Lonzi critica d’arte ancor prima che autrice di Sputiamo su Hegel. A lei è possibile ritornare –come del resto si sta facendo e il seminario organizzato a Pisa credo vada in questa direzione- per porre l’attenzione verso una soggettività “specifica”, quella dell’artista, che si costruisce e ricostruisce attraverso un processo intersoggettivo che la lega al proprio pubblico e alla propria opera. Qual è il rapporto tra artista e pubblico? Si chiede Carla Lonzi già nel 1969 nel volume Autoritratto, e quale quello l’opera d’arte e chi ne fruisce? quali processi nascono dalle forme di intersoggettività attivate attraverso l’opera? Come e quanto il genere interviene a “strutturare sguardo, attenzione, interpretazione e attese”12? A questo domande, la critica d’arte femminista statunitense e britannica ha già dato varie risposte. Penso agli studi di Griselda Pollock su alcune pittrici fondatrici del modernismo (Mary Cassatt e Berthe Morisot), artiste che attraverso la pittura espressero una soggettività che scardinava le regole del mondo dell’arte, pur rimanendo segnata da norme e modelli propri di una differenziazione sessuale introiettata, la quale finiva ad esempio per determinare figure e spazi rappresentati, angolature e marcature spaziali delle immagini ritratte, e così via. Se questo tipo di indagine indica come lo sguardo di chi dipinge sia plasmato dalla costruzione sociale del genere, esso mostra anche come il “luogo altro” -per tornare a Sally Alexander- da cui le donne artiste hanno operato –e operano- sia stato a lungo svilito, nell’ambito di un mondo e di una disciplina dominati da un canone prettamente maschile. Le ricerche italiane sul tema dell’arte delle donne è ancora agli inizi, ma conta già interventi (come quelli di Lia Giachero, Elena Pontiggia e Sabrina Spinazzè rispettivamente sulle artiste futuriste, sulle artiste più in generale tra le due guerre e su quelle nel Ventennio13) stimolati dalle proposte di una sociologa –Anna Maria Trasforini- impegnata da anni ad indagarne alcuni aspetti.

Ultimo terreno d’indagine a cui vorrei soltanto accennare prima di chiudere è quello delle “alterità” femminili otto-novecentesche, alterità costruite in relazione a soggetti –le donne lesbiche- di cui si tenta oggi di recuperare modalità di relazione, soggettività nell’amore, resistenza a discorsi, regole e pratiche connotate –anche durante il fascismo- da ambiguità e contraddizioni. All’interno di questo ambito, a cui ricondurre una pubblicazione recente a più voci come Fuori della norma. Storie lesbiche nell'Italia della prima metà del Novecento, curata da Nerina Milletti e Luisa Passerini- è possibile accostare ricerche su pratiche specifiche, come quella sul travestitismo ottocentesco studiato da Laura Schettini14.

In chiusura: la categoria della soggettività, così come è andata elaborandosi nel corso degli ultimi trent’anni, rappresenta una chiave d’indagine centrale per comprendere la singola, individuale “capacità di immaginare, pensare, decidere della propria vita”15, così come i processi collettivi attraverso cui si formano identità, si plasmano immaginari, si definiscono forme di appartenenza condivisa. Al tempo stesso questa categoria risulta centrale per capire quali elementi e fattori mettiamo in gioco nel momento stesso in cui produciamo ricerca, quando cioè la nostra soggettività entra in contatto con altre forme di soggettività, producendo nessi e relazioni che è importante esplicitare. In ogni caso, sia che si parli di “soggetto ricercante” che di “soggetto ricercato” resta utile tenere a mente l’aspetto performativo, aperto e soprattutto interdisciplinare, di concetti che nel loro farsi esplicano il proprio valore e la propria dimensione euristica.


1 Citato in L. Passerini, Memoria e utopia. Il primato dell’intersoggettività, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 19.

2 P. Di Cori, Soggettività e storia delle donne, in Società Italiana delle Storiche, Discutendo di storia. Soggettività, ricerca, biografia, Torino, Rosenberg & Sellier, p. 33.

3 Ivi, p. 30

4 J. W. Scott, Il “genere”: un’utile categoria di analisi storica, in P. di Cori, (a cura di), Altre storie. La critica femminista alla storia,Bologna, Clueb, 1996, p. 333

5 G. Calvi, Chiavi di lettura, in Id, (a cura di), Innesti. Donne e genere nella storia sociale, Roma, Viella, 2004, p. X.

6 Citato in L. Passerini, Memoria e utopia, cit., p. 49.

7 Ivi, p. 50.

8 Paper presentato a SISSCO, Cantieri di storia IV, Marsala, 18-20 settembre 2007.

9 L. Ellena, E. Petricola, Femminismi di frontiera dagli anni Settanta ad oggi, in “Zapruder”, n. 13 (Donne di Mondo. Percorsi transnazionali dei femminismi), 2007, p. 4

10 V. Perilli, L’analogia imperfetta. Sessismo, razzismo e femminismi tra Italia, Francia e Stati uniti, ibidem, pp. 9-13.

11 L. Corradi, Madre India. Pensiero e azione dell’ecofemminsmo, ibidem, pp. 41-51.

12 M. Antonietta Trasforini, Introduzione, in Id, (a cura di), Donne d’arte. Storie e generazioni, Roma, Meltemi, 2006, p. 17.

13 I saggi sono contenuti nel volume curato da Trasforini, su citato.

14 L. Schettini, Scritture variabili. L’amore tra donne nella stampa popolare e nella letteratura scientifica durante i primi del Novecento, in N. Milletti, L. Passerini, Fuori della norma. Storie lesbiche nell’Italia della prima metà del Novecento, Torino, Rosenberg & Sellier, 2007, pp. 171-201.

15 L. Passerini, Memoria e utopia, cit., p. 48